PALEOLITHIC ART MAGAZINE

LIGURIA



LO SCORRERE DEL TEMPO NELLA RAPPRESENTAZIONE MENTALE E MATERIALE DELL'UOMO DEL PALEOLITICO


Licia Filingeri



1) L'osservazione dello scorrere del tempo

2) Il concetto di mente

3) La mente dell'uomo del Paleolitico

4) Il concetto di rappresentazione mentale

5) La capacità di rappresentazione mentale dell'uomo paleolitico

6) La capacità di simbolizzazione e l'uomo del Paleolitico

7) La rappresentazione del tempo nel Paleolitico

8) Conclusione


1) L'osservazione dello scorrere del tempo

"at vigiles mundi magnum versatile templum
sol et luna suo lustrantes lumine circum
perdocuere homines annorum tempora verti
et certa ratione geri rem atque ordine certo"

(
Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, V, 1436-1439)

Non vi è dubbio che l'uomo, osservando il costante rinascere delle cose, abbia altresì immediatamente percepito l'esistenza di un climax maturativo al di là del quale inizia il declino: quindi, lo scorrere del tempo, accadimento non controllabile.

Con l'apparire della scrittura, troviamo molti miti, sicuramente stratificati su antichissime tradizioni orali, che parlano di questo. Il più famoso è forse quello di Cronos, il feroce Titano, figlio di Gea e di Urano, che mutilò e scacciò dal trono il padre, e che a sua volta, divenuto padre, temendo egual sorte per mano di un figlio, prese a divorare i figli concepiti con Rea (la mitologia narra che Zeus, scampato con un inganno alla sorte, si vendicò poi di lui, imprigionandolo nel Tartaro, divenendo così a sua volta re degli dei).

Scoprendo il nesso tra cambiamento e tempo, e nello stesso tempo riflettendo sul fatto che, per le vicende stesse dell'esistenza, il trascorrere era pregno di avvenimenti importanti per lui, l'uomo, col definire la temporalità come significativa e definibile, col distinguere nel pensiero e nella memoria tra passato, presente e futuro, ha in un certo senso reso il tempo qualcosa di sua appartenenza.

A partenza dal movimento del sole e degli astri, e poi di queste attente osservazioni sul dispiegarsi della vita attorno a sè, ha cominciato a pensare il tempo.
Così, per quanto tempo e movimento non coincidano in quanto, per determinare la velocità, dobbiamo già conoscere il tempo, tuttavia il " numero del movimento secondo il prima e il dopo" (Aristotele, Physica, VIII) ha dato all'uomo, nell'osservazione di tale movimento implicito, l'occasione di una rivelazione del tempo come evenienza di avvenimenti in cui si può osservare un prima e un dopo, si tratti di un tempo oggettivamente misurabile o di un tempo vissuto.

Con ciò siamo già nel campo del mentale.

Dunque, l'osservazione soggettivo-oggettiva dei ritmi naturali [crescita sviluppo morte] su di sé [inteso come entità psicofisica], e sui propri simili, nel regno animale e vegetale; il constatare il ritmico alternarsi di luce e di buio, di variazioni climatiche stagionali anche riguardo ai frutti e alla fauna; e, levando gli occhi al cielo, dapprima stupiti e curiosi, e poi attentamente indagatori, l'osservazione del susseguirsi delle fasi lunari, del sorgere e tramontare del sole e del periodico scomparire e riapparire delle costellazioni, un moto quindi in forma circolare ciclica sempre eguale a se stessa, tutto ciò ha ingenerato nell'uomo la coscienza del tempo e del suo trascorrere.
Questo, sia che si tratti, come sostenuto da Platone , di una idea, quindi preesistente all'uomo stesso che la pensa (una sorta di verità ultima, preesistente ed esistente indipendentemente dal pensatore che la penserà, per usare una immagine ripresa dallo psicoanalista Wilfred Bion), sia che si tratti di una creazione della mente dell'uomo, del suo " ragionamento discorsivo", la Psyché, capace di alto tasso di molteplicità, come sostiene un suo appassionato seguace, Plotino, nelle Enneadi ( "L'anima produce i suoi atti uno dopo l'altro, in una successione sempre diversa: con un nuovo atto, genera ciò che viene dopo...così la vita dell'anima, dissociandosi, occupa tempo", Enneadi, III, 7, capoverso 11), quando afferma che l'anima è principio di vita e origine delle varie cose del mondo, sicchè il tempo sorge con lei.

Con la riflessione e la consapevolezza, è presumibile il presentarsi del bisogno di "fermare" le osservazioni riguardo a questo scorrere, in quanto vitale informazione sempre disponibile, finalizzata alla riproduzione (ritmi del ciclo riproduttivo, mestruazioni, gravidanza) e agli altri aspetti della sopravvivenza (previsionalità del mutare climatico delle stagioni in relazione alla necessità di fruire di abitazioni di tipo diverso; alla raccolta del cibo come provvista e disponibilità stagionale e locale, nonché possibilità di impostare una caccia stagionale e diversificata delle prede, di aria, di terra e di acqua).

Heidegger, teorizzando sul tempo, sottolinea che l'uomo riflette sul fatto che il tempo è sempre tempo per fare qualcosa, è "tempo per...", cioè pensato a partenza dal fare umano, non idea astratta, in quanto l'esistenza umana è "tempo per fare qualcosa". Il momento della propria morte, poi, ponendo una finitezza al proprio tempo, fissa le coordinate del futuro e della finitezza stessa del tempo in sè.

Dunque, necessità di stabilire mediante precisi riferimenti, esattamente collocati nello scorrere del tempo, i momenti più consoni per la generazione, la migrazione, la caccia, la raccolta e la semina, cioè di calendariare e computare, rendendo tali riferimenti in ogni momento disponibili a sè e agli altri.
Buon senso e ragione ci suggeriscono che conseguentemente l'uomo abbia sentito la necessità di rendere stabili e disponibili tali osservazioni; si attua così un grande passo dal soggettivo al condivisibile in quanto misurabile.

Preliminarmente, deve essersi trattato di osservazioni su un tempo biologico, flusso scandito da presente, passato e futuro, quasi immediatamente trasmutate, in un processo di astrazione, in osservazioni sul ciclo della vita umana, appoggiate ad un senso di identità, indizio di una coscienza che si temporalizza, permeata com'è da una intuizione della trascendenza nell' essere, fatta anche di rimpianti del passato e di ansie per il futuro, primigenia origine di un qualche concetto di "tempo dell'uomo", che è di pertinenza del mentale.
Sappiamo che ogni concetto è frutto di un processo di astrazione, e successivamente di un'operazione di categorizzazzione sulla base di relazioni o caratteristiche in comune.

È assai probabile che immediatamente si sia innestata una funzionalità collegata allo svolgersi di riti di culto, anch'essi sequenze di atti con precisa scansione, presumibilmente legate elettivamente ai ritmi lunari ( che stabiliscono il ritmo della durata ciclica dei 28 giorni del mese lunare) e solari (ritmi annuali con il susseguirsi ciclico delle stagioni); il tutto, partendo, come si è detto, da problemi relativi al procurarsi e disporre di risorse alimentari essenziali per la sopravvivenza e la continuità della vita, sotto l'urgenza del verificarsi, e quindi dell'incombere, della morte.

Dunque, nella temporalizzazione della propria e dell'altrui vita, anche il concetto di numero irrompe nella mente dell'uomo come una straordinaria folgorazione; come già constatava Platone: "...le osservazioni del giorno e della notte, dei mesi e dei periodi degli anni, degli equinozi e dei solstizi hanno procurato il numero, e hanno fornito la riflessione sul tempo e la ricerca sulla natura dell'universo" ( Timeo, 47a).
Siamo di fronte ad una concettualizzazzione di enorme portata: un campo immenso di osservazioni e creatività si schiude davanti all'uomo.
Un solo esempio: dalla scoperta del numero a quella della musica, da sempre ad esso legata strettamente, in quanto scienza pensata e strutturata secondo le leggi del numero ( cfr.S.Agostino, De Musica e Confessiones, 11, e, dopo di lui, Severino Boezio, Consolatio, V ), il passo è breve (si pensi al Timeo di Platone, 35b passim; inoltre si vedano Aristotele, Physica, IV c 10-14 e poi ancora, del periodo cristiano, Seneca, Epistolae morales, n. 88, 33; De brevitate vitae; e Sextus Empiricus, Pyrrhoneioi hypotyposeis III 19, 136- 150; Adversus mathematicos X 3, 169-247, in cui l'universo è posto all'interno di uno schema musicale).
La ragione ci dice quindi che la osservazione e la concettualizzazione del tempo ha probabilmente spianato la strada verso tutti gli altri tipi di osservazioni e concettualizzazioni, oltre ad aprire la via maestra verso la trascendenza, in quanto l'uomo prende coscienza di questa dimensione, e in primis del divino attraverso la riflessione sui rapporti numerici, cominciando dal dispiegarsi del tempo, in cui si esprime la duplice tensione, che produce appunto movimento: del Primo Motore verso la sua creazione, e degli oggetti tutti del creato verso di lui.


2) Il concetto di mente

Siamo necessariamente approdati al concetto di mente, e di conseguenza dovremo occuparci del simbolo.

Ernest Jones asserisce che "un'idea concreta è simbolizzata quando viene rappresentata da un'altra idea concreta che di solito ha un doppio rapporto con essa: 1) un rapporto oggettivo, in quanto l'oggetto o il processo possiedono attributi materiali simili a quelli posseduti dall'idea simbolizzata; 2) un rapporto soggettivo in quanto l'atteggiamento mentale nei suoi confronti, è, sotto alcuni aspetti, simile a quello nei confronti dell'idea primaria" (Jones, p 133 Teoria del simbolismo).

Sarà a questo punto funzionale alla nostra ricerca premettere un cenno sulla fondamentale distinzione tra cervello e mente, che, a partenza da una riflessione filosofica risalente a Platone, ha occupato nell'ultimo scorcio di secolo il dibattito in seno alle Neuroscienze, che, con alterne vicende, si sono a lungo interrogate sulla possibile derivazione delle funzioni mentali da quelle cerebrali.
Il dibattito filosofico ed epistemologico al proposito è stato ed è molto acceso, ed è passato e passa attraverso molteplici posizioni.

Va chiarito preliminarmente che, riguardo alla questione della mente, la disciplina di riferimento a pieno titolo è la Psicologia; e che, tra le Psicologie, se ne occupa in particolare la Psicoanalisi, a partenza da S.Freud.

Va stabilita subito la assoluta differenziazione tra cervello (il cui studio, fatto in gran parte di misurazioni, è appannaggio delle Neuroscienze), e mente, intesa come funzione che non può essere misurata, e che viene strutturandosi nel corso e tramite i processi relazionali.

Va altresì puntualizzato che in molte scienze attinenti allo studio delle nostre origini, cominciando dalla Paleoantropologia, le funzioni cerebrali vengono da taluni non correttamente viste e usate come unico valido referente per una conoscenza globale dell'uomo a partire dalle origini, sicché dai più si tende a ritenere che il problema sia circoscritto a quello dei resti scheletrici, privilegiando il concetto di evoluzione biologica, a scapito di quella culturale, che invece si occupa dell'evoluzione della mente.

Quello che intendo dire è che gli indubbi, importanti arricchimenti riguardo alla conoscenza dell'evoluzione fisica dell'uomo, giustamente limitati ad una parte del discorso globale riferentesi ad Homo, quindi conforme al principio metodologico dell'epistemologia attuale, mal interpretati e peggio usati da molti studiosi della Preistoria, hanno posto un grave freno all'indagine sull' imprescindibile problema dei rapporti tra accadimenti organici e mentali; oltre tutto, li hanno considerati di là da venire in una ipotetica (ma presa per buona) scala dell'evoluzione umana, di conseguenza non indagandoli nell'uomo del Paleolitico, anzi, neanche osando postularli, per timore forse di essere accusati di troppa fantasia e poca scientificità.
In tal modo, la scienza non progredisce: invece della curiosità e delle deduzioni suggerite da buon senso e ragione rispetto alle "tracce-documenti" esistenti (ovviamente, non ci si riferisce a documenti scritti nei periodi antecedenti la scrittura), che sole sono in grado di darci un quadro della situazione all'epoca, campeggiano remore e idee preconcette su quanto da un punto di vista dell'evoluzione fisica poteva essere o non essere, perdendo quindi l'occasione di scoprire cose nuove (quasi sempre inaspettate o "incredibili").
Sarebbe poi auspicabile che tutte le discipline lavorassero fianco a fianco, integrandosi, senza fermarsi ad una visione dell'uomo puramente biologica ed evoluzionistica in senso deteriore restrittivo.

Altri hanno suggerito strade alternative e più fruttuosamente percorribili, come lo psichiatra Henry Ey, che ha indicato una strada verso una neurobiologia relazionale e antropologica, che non nega l'importanza dell'evoluzione fisica del cervello, ma considera l'uomo nell'unico modo possibile, non solo come un corpo con potenzialità fisiche, ma nella sua essenza bio-psico-sociale.


3) La mente dell'uomo del Paleolitico

Si pone quindi l'esigenza di chiederci se l'uomo di 2.500.000 di anni fa possedesse o meno una mente.

Volendoci limitare a considerazioni di carattere antropologico, constatiamo che Homo Habilis presenta, rispetto alle forme che lo hanno preceduto, un notevole aumento della capacità cranica, e quindi delle aree corticali che presiedono al linguaggio, e di quelle associative legate alle funzioni simboliche (vedi Eccles, p 103 e seguenti), quindi sono ipotizzabili sia coscienza che autocoscienza.
D'altronde, le testimonianze che Homo ci ha lasciato, principalmente manufatti in pietra foggiati intenzionalmente con un progetto e una tecnica ben precisa funzionale allo scopo, sia utilitario che non, e cioè l'arte, sono testimonianza vivissima e inconfutabile della mente, delle sue rappresentazioni mentali (l'arte), e della loro evoluzione.

Daniel C.Dennet, filosofo (come preferibilmente ama definirsi) e scienziato, direttore del Centro per gli Studi Cognitivi alla Tufts University, Massachusetts (U.S.A.), assimila la mente a un programma di calcolatore, in cui apprendimento e memoria agiscono come basi della riprogrammazione del cervello al fine di poter affrontare al meglio nuovi problemi: " Il compito di una mente è di produrre futuro...Una mente è, ridotta all'essenziale, un sistema capace di anticipazione ... : scava nel presente alla ricerca di indizi, che poi perfeziona con l'aiuto dei materiali preservati dal passato, trasformandoli in anticipazioni del futuro. E poi agisce, razionalmente sulla base di queste anticipazioni " ( Dennet, p 69).
Si tratta di una tattica fondamentale dal punto di vista dell'evoluzione, che privilegia le creazioni il cui progetto ha una plasticità fenotipica, in quanto non esiste un progetto completo fin dalla nascita, ma ampia possibilità di correggere certi elementi del progetto in seguito a evenienze occorrenti nel momento della verifica pratica.
In particolare, Dennet osserva come questo processo sia iniziato proprio dagli Ominidi, sottolineando la constatazione, da parte degli antropologi, di un aumento di intelligenza correlato all'ideazione e all'uso di strumenti.
Dennet nota che " non solo il riconoscimento e la conservazione di uno strumento ( e ancor più la sua fabbricazione) richiedono intelligenza; uno strumento è anche in grado di conferire intelligenza a chi è abbastanza fortunato da possederlo" ( ivi, p 115). Infine le modificazioni, veicolate da linguaggio e immagini, a loro volta si trasferiscono sul genoma. Dunque, ciò che fa di qualcosa una mente, è quello che essa può fare. Ergo, gli uomini del Paleolitico, i fabbricatori dei primi utensili, e della prima arte, i primi uomini comparsi sulla scena del mondo, avevano una mente.
Pertanto, possiamo postulare l'esistenza della mente in Homo fin dalle origini.

Recentemente, si è parlato molto di " risonanza delle menti" nel corso delle relazioni sociali, e del suo potere trasformativo, esercitatosi nell'arco dei tempi. "Connections between minds […] involve a dyadic form of resonance in which energy and information are free to flow across two brains. When such a process is in full activation, the vital feeling of connection is exhilarating. When interpersonal communication is 'fully engaged' - when the joining of minds is in full force - there is an overwhelming sense of immediacy, clarity, and authenticity. It is in these heightened moments of engagement, these dyadic states of resonance, that one can appreciate the power of relationships to nurture and to heal the mind." (Siegel, p. 337).

Sarà poi da considerare come l'evolversi del linguaggio rivesta un ruolo importante nell'evoluzione della mente dell'uomo, ma anche in questo caso, non sarà utile nè dirimente ridurre il problema a un discorso di sviluppo della laringe e degli organi fonatori, oltre che delle aree cerebrali deputate al linguaggio o ad esso correlate, ma dovremo chiaramente concordare su cosa consideriamo "linguaggio", che, in accordo con Eccles, considereremo come un particolare sistema semiotico.
Saranno quindi da valutare i rapporti tra linguaggio e pensiero, con le trasformazioni di tipo simbolico e rappresentazionale di segni creati e usati che conducono al linguaggio.



4) Il concetto di rappresentazione mentale

Il termine modello di rappresentazione "colloca i linguaggi nell'accezione...[di] sistemi semiotici, convenzionali o naturali, che l'uomo adopera per definire/determinare aspetti o parti di realtà, e che vengono usati dagli uomini per scambiarsi dati in merito alla realtà stessa" (Vimercati, p 13).
Il modello freudiano, col discorso sugli istinti, come stimoli interni all'organismo, che hanno permesso lo sviluppo del sistema nervoso nell'uomo, ha contribuito ad un'osservazione straordinariamente interessante sul piano antropologico, "in quanto sposta il vertice evolutivo dell'uomo dalle funzioni organiche care alla paleoantropologia (acquisizione della posizione eretta, trasformazione dell'uso della mano, della bocca ecc.) (Leroi-Gourhan, 1964-65) a quelle psichiche, dominate dal desiderio. Un passaggio evolutivo dalla natura alla cultura" (Mancia, p 15).

Rappresentazione mentale è un termine che corrisponde a immagine ( dal latino imago, fantasma, apparenza), riproduzione mentale di una percezione già avvenuta, non presente ai nostri sensi, si tratti di un oggetto esterno, interno o fantastico; esso designa pure il contenuto della rappresentazione.
In ogni caso, permette di rivivere l'esperienza percettiva, anche in assenza dell'oggetto che ne costituisce lo stimolo sensoriale.

Freud nella sua Metapsicologia distingue tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola. Quella di cosa ( assai vicina alle tracce mnestiche) è visiva, derivando dalla vista appunto di "cose", mentre quella di parola è acustica, originando dalla percezione di suoni.
Freud opera tale distinzione per chiarire come le rappresentazioni di cosa siano legate all'inconscio, mentre quelle di parola si legano al sistema preconscio-cosciente. Tuttavia, la rappresentazione di cosa è più di una traccia mnestica, in quanto non è una pura trascrizione dell'evento, ma ne presuppone un reinvestimento.
D'altra parte, la rappresentazione di parola è più complessa, in quanto l'immagine mnestica, associandosi alla verbalizzazione, entra nell'area della coscienza.

Da notare che la rappresentazione conscia è costituita sia dalla rappresentazione di cosa che da quella verbale che le corrisponde, quindi è più articolata della rappresentazione di cosa inconscia.



5) La capacità di rappresentazione mentale dell'uomo paleolitico

Possiamo a questo punto chiederci quale poteva essere la capacità di rappresentazione mentale dell'uomo del Paleolitico.
In mancanza di documenti scritti, una risposta a tale quesito potrebbe essere dedotta dall'osservazione delle produzioni materiali.

Per realizzare i primi utensili, è indubbio che il nostro più lontano antenato sia partito da un'idea, un progetto mentale, frutto probabilmente di associazioni ed elaborazioni ulteriori di osservazioni in natura.
Tale rappresentazione aveva ovviamente anche un contenuto, probabilmente, facendo un esempio, la forma-progetto incarnante l' idea di un utensile, di cui oggi possediamo migliaia di esemplari, universalmente noti (tutte le persone di media scolarizzazione sono in grado di riconoscere un utensile paleolitico in pietra).

Fatti salvi i progressi derivanti dall'evoluzione della tecnica, non vediamo quindi un grande divario tra la capacità di rappresentazione mentale dell'Uomo del Paleolitico e la nostra di Homo technologicus del III millennio.




6) La capacita di simbolizzazione e l'uomo del Paleolitico

Già sappiamo che nell'uomo di 2.500.000 anni fa erano presenti aree associative, cioè delle regioni cerebrali legate alle funzioni simboliche .

Il simbolo, che rientra nell'ordine del segno, è un segno specifico che viene a sostituire un'azione reale.
Sappiamo che, per accedere alla simbolizzazione, non è necessaria la facoltà di linguaggio, come da tempo hanno dimostrato ricerche di laboratorio sugli scimpanzè.

Uno studio di Joel Fagot (Centro ricerche di Neuroscienze di Marsiglia, Francia), e Edward Wasserman e Michael E. Young ( Università dello Iowa, U.S.A.), ("Journal of Experimental Psychology"), ottobre 2001, riguardante dei babbuini (anch'essi appartenenti alla famiglia dei primati, precisamente a un ramo che si è diviso dagli uomini e dalle scimmie circa trenta milioni di anni fa), ha ulteriormente mostrato che non è necessaria la facoltà di linguaggio per capire le relazioni tra le cose e identificarle o descriverle.
I babbuini dell'esperimento hanno dimostrato di possedere barlumi di intelligenza astratta, essendo in grado di selezionare delle immagini sullo schermo di un computer, seguendo un ragionamento analogico del tipo: "questo corrisponde a questo" .

Se questo è valido per i nostri cugini più prossimi, perchè non dovrebbe esserlo per noi?
Inoltre, per l'uomo, tanto più agli inizi della vita sociale, la capacità di simbolizzare è stata funzionale alla stessa organizzazione sociale, oltre che ad una migliore messa a punto di strategie di sopravvivenza,

Presumibilmente, agli inizi, le sequenze numeriche (quantitative) dopo essere state espresse in qualche modo a livello verbale (con suoni in sequenza e simili, probabilmente, prima della creazione di suoni vocali più organizzati e in un linguaggio verbale più strutturato), venivano rappresentate concretamente (albo signanda lapillo, solevano dire i Romani), con oggetti naturali, che potevano essere pezzetti di legno, o sassolini, o qualsiasi altro oggetto disponibile in quantità in natura, durevole nel tempo, non ingombrante, eventualmente facilmente trasportabile, visivamente ben chiaro; simboli, appunto.

In seguito, possiamo ipotizzare che, per maggiore praticità d'uso (economia di spazio, facile trasportabilità e trasmissività, universalità di comprensione e di apprensione), tali sequenze siano state registrate attraverso qualcosa che le rappresentava, presumibilmente puntini o tacche verticali incise su materiale rigido, come la pietra, il primo, più durevole e consistente materiale a disposizione in natura.

Il ricorso al simbolo potrebbe pure rientrare in un problema di comunicazione, processo reso possibile da un linguaggio, il simbolo appunto, o il segno stesso in senso lato, in quanto relazione tra significante e significato.
Come tale, esso attua un passaggio dalla rappresentazione mentale a quella materiale (il simbolo usato come oggetto concreto), pertanto reso comune, socialmente condiviso ed immediatamente comprensibile (il che rientra nell'ambito del mentale in prima istanza, e poi eventualmente del culturale), qualora sia strumentale alla registrazione del tempo. In questo caso, la finalità diviene informativa, quindi strettamente conoscitiva (cognitiva), indissolubilmente legata, come si è detto, ad un problema urgente e primario di sopravvivenza.

Tale probabilmente la prima motivazione al bisogno computazionale e soprattutto della sua registrazione e pubblica condivisione.



7) La rappresentazione del tempo nel Paleolitico


Evidenze della percezione e del computo del tempo nel Paleolitico sono giunte fino a noi in forma concreta, sotto forma di scultura in pietra, calendari lunari su osso e mappe stellari, incise su materiale rigido come la pietra o l'osso o dipinte all'interno delle grotte.
Il primo ad avere l'intuizione dell'esistenza, nel Paleolitico superiore, di calendari è stato Alexander Marschack, che negli anni 60, giornalista incaricato dalla NASA di scrivere un libro sulla storia della Scienza, si è posto il problema di quale poteva essere l'elemento rivelatore del sorgere della componente scientifica nella storia del pensiero dell'uomo.
Venuto a conoscenza dell'osso inciso di Ishango, e appassionatosi alla ricerca archeologica, dopo attenti ed accurati studi, ha individuato ed indicato quale elemento cardine della storia dello sviluppo della scienza da parte dell'uomo il calendario, strumento che si è evoluto gradatamente e lentamente attraverso i tempi, come testimoniato dai ben noti lunari predinastici della civiltà egizia, fino a quelli mesopotamici, indiani, cinesi e dell'America del Sud.
La sua prima indagine in questo senso ha riguardato un manico di osso di 9,6 cm. di lunghezza , proveniente da Ishango, presso il Lago Rodolfo, Nilo superiore, Africa equatoriale, datato a 20.000 anni ( fa parte delle collezioni del Museum des Sciences naturelles di Bruxelles, Belgium ). scoperto nel 1950 dall'archeologo belga Jean De Heinzel .
L'osso, leggermente ricurvo, è inciso trasversalmente e verticalmente su tre lati, con 168 tacche organizzate su cinque colonne in gruppi e sottogruppi di segni.
Jean de Heinzelin nel 1962 ne aveva fornito una prima inerpretazione, individuando nella I colonna i numeri primi tra 10 e 20, nella II il concetto di moltiplicazione, nella III una sorta di gioco matematico sulla base di addizione e sottrazione.
In ogni caso, questo oggetto, ricchissimo di combinazioni interne, ancor oggi non è stato compiutamente compreso.
Marshack, a sua volta, postulando l'interesse dell'uomo del Paleolitico per le attività della vita quotidiana legate allo scorrere del tempo, lo ha considerato un calendario, in particolare un calendario lunare.
Dopo aver studiato questo primo oggetto legato al computo del tempo, ne ha cercati altri. Presso il Musée des antiquités nationales de Saint-Germain-en-Laye, Parigi, Francia, ha compiuto osservazioni su una serie di oggetti datati a partire dall'Aurignaziano (30.000 a.C.), fino al Maddaleniano , in particolare soffermandosi su un osso proveniente dall'abri Blanchard, Castelmerle, Sergeac, Dordogne, lungo 9,7 cm., rinvenuto da Louis Didon nel 1911, inciso su una superficie di 5,2 cm., con 69 tacche di forma e sequenza simile a quella delle varie fasi lunari .
La sua interpretazione è stata quella di un calendario lunare che copre un periodo di 2 mesi e 1/4; avendovi poi trovato altre tacche (63, e 40 sull'altra faccia), quindi in totale 172 segni, ne ha dedotto che si tratta della rappresentazione di 6 mesi lunari. Marshack sostiene che il conteggio venne fatto più volte, in quanto si riscontra, osservandole al microscopio, che le tacche furono incise in periodi differenti con 24 strumenti di tipo diverso.
In seguito, ha studiato altri calendari lunari, come l'osso inciso dell'abri Lartet, Dordogne, aurignaziano di 30.000 anni fa, con incisioni circolari che ritiene simili all'aspetto della luna nelle sue varie fasi durante un mese; anche in questo caso, secondo Marshack, il conteggio fu ripetuto più volte ; il ciottolo di Barma Grande (Italia, Perigordiano, datato a 24.000 anni), e un bastone di comando della Grotta Placard (Charente, Maddaleniano di 12.000 anni fa).
Altri studi sono seguiti, come quelli relativi a Kulna, Cecoslovacchia, che presenta 46 tacche a gruppi di tre (15, 16 e 15), ancora collegate alle fasi lunari (metà del mese lunare); quello di Gontzi, Ucraina , con 114 tacche su una linea continua a forma di U, raggruppate in quattro gruppi (potrebbe trattarsi della notazione relativa a quattro lunazioni); quello di Cueto de la Mina, esteso da marzo a ottobre, forse in relazione con osservazioni sui periodi di gestazione.

Sempre appartenente al Paleolitico superiore, non va dimenticata l'incisione su pietra della Venere di Laussel con in mano un corno o osso inciso, che potrebbe essere una delle prime testimonianze di registrazioni delle fasi lunari ( cfr. Filingeri, La più antica rappresentazione conosciuta della luna Paleolitico Superiore, Vara, Savona, Liguria, Italia, Paleolithic Art Magazine)

Recentemente, Michael Rappenglueck (Facoltà di Matematica e di Scienze Informatiche della Ludwig-Maximilians-Universitaet, Monaco di Baviera), in base a numerosissime prove di vario tipo, ha individuato nella grande scena di Lascaux di m.2,75 con animali e il cosiddetto "uomo con volto a becco", una rappresentazione in cui individua lo sciamano, che affronta lo spirito del bisonte, in relazione con alcune costellazioni che, nell'estate del 16.500 a.C., passavano sul meridiano alla mezzanotte del solstizio d'estate (stelle del Triangolo estivo, Deneb (alfa Cygni), Vega (alfa Lyra), Ercole (Her), Testa del Serpente, Ofiuco e Vergine (Vir), e Altair (alfa Aquila), nell'affresco di Lascaux rappresentate dagli occhi dell'uomo ucciso, del bisonte e dell'uccello sul bastone. Inoltre, il rinoceronte sarebbe composto dalle costellazioni Pegaso (Peg), Andromeda (And), Triangolo (Tri), Ariete (Ari) , e il cavallo dalla costellazione del Leone (Leo) .
Rappenglueck sostiene, appoggiandosi ad evidenze provenienti da varie discipline antiche e moderne, che l'affresco di Lascaux è rivelatore di conoscenze di un'antica cosmologia, cosmogonia, biologia, psicologia e religione, che dimostrerebbero una elevata forza ideologica ed integrativa dell'uomo del Paleolitico.        

Ulteriori testimonianze dell'interesse per lo scorrere del tempo e della accuratezza delle osservazioni astronomiche ci vengono dai numerosi osservatori astronomici megalitici che sono arrivati più o meno intatti fino a noi, a cominciare dal grande, importante complesso di Stonehenge, che, col perfezionarsi degli studi e degli strumenti computazionali a disposizione, sempre più si sta rivelando un perfetto ed estremamente complesso osservatorio astronomico, come ha dimostrato l'astronomo Gerald S. Hawkins ( Nature, 1963, e successivamente nel suo libro Stonehenge Decoded, 1965 , New York, Doubleday).

In tempi ancora più remoti, una traccia dell'interesse dell'uomo per la luna, l'astro che più di ogni altro si presta, con l'alternanza delle sue fasi chiaramente percepibili (sia a livello visivo diretto, sia sotto forma di influssi immediatamente verificabili, ed essenziali per la sopravvivenza stessa del genere uomo), a mostrare lo scorrere ciclico del tempo e la durata, viene a noi dal Paleolitico, con una superba scultura in pietra,

Scultura antropomorfa. Vista di profilo.
Vara, San Pietro d'Olba, Savona Italia

che, con la sua forma arcuata, tipologicamente assai difforme da altre a nostra conoscenza, sembrerebbe raffigurare proprio una falce di luna ( vedi La più antica rappresentazione conosciuta della luna, cit.) . Copricapo e capigliatura sono divise da una incisione. Altre linee sono apprezzabili su quello che il suo scopritore, Pietro Gaietto, interpreta come un cappuccio, per cui si potrebbe anche ipotizzare un calendario a tacche. Il viso, ritratto di profilo, in quella che sarà poi la classica raffigurazione antropomorfa di una falce di luna, potrebbe appartenere ad una donna, conformemente all'associazione luna-donna che si perde nella notte dei tempi. Si potrebbe quindi ipotizzare che si tratti della più antica rappresentazione conosciuta della luna.


Scultura antropomorfa. Vista di 3/4.
Vara, San Pietro d'Olba, Savona Italia

La scultura è stata così descritta da Gaietto:" Scultura antropomorfa (alt. cm. 46, Vara, San Pietro d'Olba, Savona Italia). Raffigura una testa di Homo sapiens sapiens. Ha una deformazione stilistica che accentua la faccia rientrante; e una simile raffigurazione è in un menhir antropomorfo di Carnac (presente in questo sito). Essendo imberbe, potrebbe anche essere una testa femminile. Per l'innalzamento della testa, sembra che abbia un copricapo."




8) Conclusione

Dunque, evidenze nel campo artistico, risalenti al Paleolitico inferiore e via via avanti nel tempo, sia nella prima forma di arte, la scultura, sia nell'incisione e nella pittura, mostrano l'immediata percezione da parte di Homo dello scorrere del tempo, e la sua preoccupazione di misurarlo, fissarlo nell'osservazione in forma stabile, servirsene ai fini stessi della propria sopravvivenza.

Vorrei concludere rammentando alcuni versi di Lucrezio, che da più di 2000 anni ci aiuta a pensare:
"Primum animum dico, mentem quem saepe vocamus,
in quo consilium vitae regimenque locatum est,
esse hominis partem nilo minus ac manus, et pes,
atque oculi partes animantis totius extant."

"Affermo che primo lo spirito, che spesso chiamiamo mente,
in cui trovano sede il consiglio e il governo dell'esistenza,
è parte dell'uomo, non meno che mano, e piede,
e occhi fanno parte di tutto quanto l'essere animato".

(Lucrezio, De rerum natura, III, vv.94-97).








BIBLIOGRAFIA



DENNET,D.C., (1996), La mente e le menti, Milano, Rizzoli, 1996

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